Fede, Dialogo e Memoria – l’intervento del pastore Aldo D’Onofrio all’incontro con l’assessore di Firenze
Ecco l’intervento del pastore Aldo D’Onofrio all’incontro con l’assessore del Comune di Firenze, Alessandro Martini, assieme a diversi rappresentanti religiosi, sul tema Fede, Dialogo e Memoria. Una preziosa condivisione dal punto di vista religioso sul tema della Memoria.
L’evento è andato in diretta su YouTube il 26 gennaio 2021, sul canale YouTube “Dirette streaming del Comune di Firenze”.
La visione è disponibile solo su YouTube al seguente link.
Aldo D’Onofrio legge un brano da La Mia Vita per la Pace (Sun Myung Moon), in cui l’autore racconta la propria esperienza nel campo di concentramento a Heungnam in Nord Corea.
Il 20 maggio, dopo tre mesi di detenzione nel carcere di Pyongyang, fui trasferito nel campo di prigionia di Heungnam. Provai indignazione, ma anche vergogna davanti al Cielo. Fui legato a un ladro in modo che non potessi fuggire. Fummo trasportati da un veicolo che impiegò diciassette ore per arrivare a destinazione. Mentre guardavo fuori dal finestrino, cresceva dentro di me un potente sentimento di dolore. Mi sembrava incredibile che dovessi percorrere da prigioniero quella strada tortuosa, costeggiando fiumi e attraversando vallate.
La prigione di Heungnam era un campo di lavoro forzato per prigionieri sottoposti a regime speciale; il lavoro si svolgeva nella vicina fabbrica di concime chimico azotato. Fui sottoposto a quel regime per due anni e cinque mesi.
Il lavoro forzato era una pratica che la Corea del Nord aveva appreso dall’Unione Sovietica. Il governo sovietico non poteva semplicemente uccidere i «borghesi» e gli altri cittadini non comunisti, perché il mondo lo stava osservando e occorreva tenere conto dell’opinione pubblica mondiale; ideò così la pena dei lavori forzati. Le persone che venivano sfruttate in questo modo erano costrette a lavorare a ritmi sostenuti finché morivano per il progressivo deperimento. I comunisti nordcoreani avevano copiato il sistema sovietico e condannavano tutti i prigionieri a tre anni di lavori forzati. In realtà, i prigionieri normalmente morivano nel campo di prigionia ben prima che avessero finito di scontare la loro pena.
La nostra giornata cominciava alle 4,30 del mattino. Ci facevano mettere in fila, inquadrati nel piazzale, e ci ispezionavano il corpo e gli abiti, per verificare se avessimo indosso materiali non autorizzati. Dovevamo togliere tutti gli indumenti e ciascun capo di vestiario veniva esaminato accuratamente. Tutti gli abiti venivano sbattuti tanto a lungo che non sarebbe potuto restarci attaccato neanche il più minuscolo granello di polvere. Tutta l’operazione prendeva almeno due ore. Heungnam si trova sulla costa e in inverno il vento colpiva i nostri corpi nudi come un coltello affilato.
Dopo la conclusione dell’ispezione ci davano da mangiare un pasto disgustoso. Poi marciavamo per circa quattro chilometri fino alla fabbrica di fertilizzante. Marciavano fianco a fianco in gruppi di quattro, dovevamo tenere per mano la persona accanto a noi e non potevamo alzare la testa. Eravamo circondati da guardie armate di fucili e pistole.
Se qualcuno ritardava il cammino del proprio gruppetto o lasciava la mano di chi gli stava vicino, veniva percosso duramente per aver tentato di fuggire.
D’inverno la neve era più alta delle persone. Nelle gelide mattine d’inverno, quando marciavamo in mezzo alla neve più alta di noi, la testa cominciava a girarmi. La strada gelata era estremamente scivolosa e il vento freddo soffiava ferocemente. Eravamo senza energia, anche se avevamo appena consumato la colazione, e le ginocchia cedevano. In ogni caso dovevamo arrivare fino al luogo di lavoro, anche se questo significava trascinare le gambe esauste per tutto il percorso.
[…]
La vita in quella prigione era così terribile che chi non l’abbia sperimentata non può neppure immaginarla. Metà dei prigionieri morivano entro il primo anno, così ogni giorno passavano sotto i nostri occhi i cadaveri che venivano portati fuori dal cancello posteriore in contenitori di legno. Lavoravamo molto duramente e la nostra unica speranza di andar via di là era da morti, in una di quelle bare. Anche per un regime spietato e crudele, il modo in cui ci trattavano andava chiaramente oltre i confini dell’umanità. Tutti quei sacchi di fertilizzante, riempiti con le lacrime e la sofferenza dei prigionieri, venivano stivati nelle navi e portati in Russia.
Mentre ero recluso a Heungnam, era scoppiata la guerra di Corea. Dopo i primi tre giorni, l’esercito della Corea del Sud abbandonò la capitale Seul e si ritirò più a sud. A quel punto sedici nazioni, con in prima fila gli Stati Uniti, costituirono una forza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite e intervennero nella guerra.
[…]
Era il 13 ottobre 1950 e le forze statunitensi, dopo lo sbarco vittorioso ad Incheon, avevano risalito la penisola, avevano liberato Pyongyang e stavano spingendosi verso Heungnam. Quella notte, i soldati americani attaccarono Heungnam con tutte le forze, precedute dai bombardieri B-29. Il bombardamento fu così intenso da far sembrare che tutta la città fosse diventata un mare di fuoco. Le alte mura che circondavano la prigione cominciarono a crollare e le guardie corsero a mettersi in salvo. Alla fine, il cancello della prigione dove eravamo rinchiusi si aprì. Verso le due della mattina, camminando dignitosamente, uscii tranquillo dalla prigione di Heungnam.